PANERAI - La mia vita in "Officina" Un tratto significativo di storia della celebre casa dalle origini fiorentine, raccontato da uno dei protagonisti della sua rinascita : l’Ingenier MARIO PACI

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QUANDO LA PROFESSIONE diventa passione e viceversa, si trovano sempre nuove idee, fatti, persone. Siamo andati a Firenze per iniziare un nostro personale cammino alla scoperta della storia Panerai. Lì abbiamo incontrato Mario Paci, uno trai protagonisti di quel pugno di anni, tra il 1993 e il 1997, che videro rinascere  l’icona dell’orologeria subacquea italiana.

 

 

 

Chi è Mario Paci?
«È un ingegnere meccanico che nel 1982, di ritorno dal militare, cercava lavoro.  Il mio amico Massimo Cecchi, compagno di studi d’università, lavorava alla Panerai e mi telefonò per chiedere aiuto perché in quel periodo le Officine Panerai stavano letteralmente “esplodendo” di lavoro. Feci subito domanda.»
La chiamarono?
«Sì. Feci il colloquio prima con l’ingegner Biffi e poi con l’ingegner Dino Zei, il quale mi disse che potevo addirittura iniziare l’indomani. Le sue uniche parole furono che per lavorare alla Panerai bisognava vestirsi in giacca e cravatta e che si augurava che io rimanessi con loro fino alla pensione.»
Era pronto a quel lavoro?
(sorridendo) «No. Andai lì non sapendo nulla, ma avevo veramente tanta voglia di fare.»
Quale fu il suo primo compito?
«Mi occupai dei collaudi e dovevo organizzare ex-novo un sistema di Assicurazione della qualità (erano i primi anni del concetto di ISO 9001) che poi andava certificato. Pian piano iniziai a conoscere l’azienda e i prodotti. Non potei subito accedere al settore riservato, quello militare.»
Cos’era?
«Un reparto chiuso a chiave, allarmato, dove si producevano i prodotti classificati, quindi protetti da un segreto militare. Non avevo il NOS (Nulla Osta di Segretezza), che viene richiesto dall’azienda e rilasciato dal Ministero della Difesa dopo indagini sulla persona.»
Arrivò anche a lei il NOS?
«Fui convocato d’urgenza dai carabinieri, senza alcun motivo apparente. Incominciarono ad interrogarmi su tutto. Alla fine diedero l’ok per il rilascio del nulla osta e iniziai a lavorare anche nel reparto riservato.»
Com’era strutturata la Panerai?
«Il lavoro si svolgeva su quattro sedi: Piazza Ferraris a Firenze, dove si trovavano la Direzione Commerciale, gli uffici degli Acquisti e del Personale; la cosiddetta Officina di Viale Volta, sede della vecchia officina di produzione e dell’Ufficio Tecnico; due sedi distaccate a Cascine del Riccio, due aziende controllate di cui una si occupava della produzione meccanica e l’altra della produzione elettronica.»


Ci avviciniamo alla Panerai orologiera?
«Sì. Arrivarono i fatidici anni 1992 e 1993: in quel momento Zei decise di riproporre al grande pubblico gli orologi storici e a me fu assegnato il compito di seguire quel settore orologi.»
Un incarico a posteriori importante.
«Sì. Dovevo praticamente seguire tutto: dalla progettazione, ai rapporti con i fornitori, dal montaggio dei cinturini al confezionamento, all’archivio fino al controllo finale e alla spedizione. Tutto questo non sostitutiva, ma si aggiungeva alle mie precedenti mansioni.»
Ricorda il passaggio a quello che oggi è il Richemont Group?
«Quando nel 1997 ci fu la necessità di vendere, Zei mi disse di mettere via tutto quello che riguardava gli orologi (orologi, documentazione, oggetti vari, scatole e cinturini). A marzo del 1997 venne il professor Ugo Pancani, incaricato dall’allora Vendôme Luxury Group di verificare tutto ciò che io avevo messo da parte. Insieme stilammo un elenco, che divenne poi un allegato del contratto di vendita. La cosa mi alleggerì il lavoro, ma fu come togliere il giocattolo più bello dalle mani di un bambino.»
Poi cosa successe?
«Passò tutto a Cartier e per due o tre anni non feci più niente nel settore orologi. Poi intorno agli anni 2000 ricevetti la proposta di un francese di fare dei cinturini a nome mio. Nel frattempo, con Dino si decise di scrivere un libro per tramandare la storia dell’azienda. Lui mi scriveva a mano i testi che  io trascrivevo al computer. Il libro fu editato nel 2003, al quale seguì una seconda edizione con un secondo volume tutto dedicato agli orologi.»

 

È venuto a conoscenza di qualche aneddoto legato all’inizio della storia Panerai?
«Negli anni ‘30 capitava che alcuni ufficiali importanti venissero in visita nell’Officina. Giuseppe Panerai li portava al pian terreno dove gli operai erano vestiti in tuta blu. Poi si spostavano al piano di sopra, facendoli passare per le scale principali: ma in fondo all’officina c’era una scaletta dove gli operai in tuta blu andavano al piano di sopra e si mettevano il camice bianco. Così gli ospiti vedevano altri operai in camice bianco, ma erano gli stessi operai di prima.»
Ci sono altri episodi legati a Giuseppe Panerai?
«Si racconta che una volta c’era un operaio che non lo convinceva: un giorno lo chiamò nel suo ufficio e gli dette una calamita. Poi gli disse di andare in giardino a raccogliere dei chiodi tra le pietre. Gli fece passare tre giorni a raccogliere chiodi con la calamita. Il terzo giorno gli disse di andare dalla Signorina Bianchi,  capo del personale. Quando diceva di andare dalla Signorina Bianchi voleva dire che eri licenziato. Ma non era questo l’aspetto principale di Giuseppe Panerai, che anzi amava e proteggeva i suoi dipendenti, aiutandoli in qualsiasi modo quando ce ne fosse stata la necessità.»
Orologi non convenzionali?
«Quello che Panerai realizzò per l’ora di riferimento dell’Amerigo Vespucci, chiamato “La Mostra”. Il suo quadrante utilizzava un brevetto Panerai di nome Elux, dove la classica lampadina è stata sostituita da un disco elettroluminescente alimentato a bassa tensione ma a frequenza molto alta: il disco si illumina ed emette una luce verde, che rende perfettamente leggibile il quadrante al buio.»
Decisamente qualcosa di non comune. C’è dell’altro?
(sorridendo) «Guido Panerai aveva addirittura inventato un gioco per i bambini legato al mondo dell’orologeria: una scatola di legno contenente un orologio che si poteva smontare e rimontare all’infinito, per divertirsi e, allo stesso tempo,
imparare come è fatto un orologio.»
Altri tempi.
«Sì, Giuseppe Panerai era davvero un personaggio. La moglie era di una dolcezza incredibile. Ogni volta che l’andavamo a trovare si metteva a chiacchierare, ci faceva fare il caffè, portava i biscotti. È stata invitata da Panerai a diversi eventi qui a Firenze.»

Da un punto di vista collezionistico, quanti sono i periodi storici?
«Sostanzialmente tre: il primo dal 1935 fino al 1968; il secondo dal 1993 al 1997, quello che viene definito pre-Vendôme; infine dal 1997 fino ai giorni nostri. A questo si aggiunge nel 1985 un unico prototipo in titanio, pensato da Bettarini che voleva riproporre un orologio per Comsubin (Reparto Speciale della Marina). Fu fatto a tempo perso, testato anche in mare, ma non se ne fece di nulla, i tempi forse non erano ancora maturi.»
Quando il Gruppo Richemont ha preso il marchio, ha comunque trovato una base interessante?
«Certamente sì. È stato lungimirante, perché ha capito le potenzialità che il marchio sarebbe stato in grado di esprimere. Acquistato per 1,8 miliardi di lire, pochi se li pensiamo in euro, ma una cifra importante per l’epoca, ha  poi certamente investito tanto sia in prodotto che in comunicazione, però ha acquistato un orologio con dietro una storia vera e un’idea spaziale. Non poteva altro che andare bene.»
Torniamo indietro nel tempo, al primo periodo di produzione: si poteva acquistare sul libero mercato uno dei Panerai prodotti tra il 1935 e il 1968?
«Assolutamente no. Neanche nel negozio Fiorentino. Nessun Panerai fu venduto prima del 1993: era una sorta di segreto militare.»
Ma allora i modelli di quel periodo che troviamo in vendita, da dove vengono?
«Provengono tutti da persone che avevano lavorato con il Comsubin, erano dei pezzi di servizio: la maggior parte di loro sono stati “riciclati” da chi li aveva in dotazione.»
Erano orologi assegnati?
«Sì, nel senso che venivano consegnati all’incursore prima della missione, alla stessa maniera di come si consegnavano il fucile e le giberne. Alla fine della stessa tornava tutto in magazzino, orologio compreso.»
Avevano dei numeri seriali?
«Alcuni avevano inciso sul fondello una sigla alfa-numerica (per es. SMZ02, ma  la sigla poteva cambiare a seconda del corpo di appartenenza), tutti avevano la matricola o dentro il fondello o tra le anse. Non c’erano altri numeri particolari.»
Una delle caratteristiche distintive era il quadrante con gli indici in radio.
«Sì, era stato scelto per permetterne la leggibilità anche in immersione e al buio. Quando all’inizio degli Anni ’60 ci si accorse che il radio era pericoloso a causa delle sue radiazioni, gli orologi furono tutti sequestrati, cementificati dentro una cassetta e gettati in mare in un punto molto profondo. Questo narrano personaggi dell’epoca, una storia che però secondo me è stata un po’ romanzata.»
Furono buttati tutti?
«Nessuno potrà mai sapere se in quella cassetta c’erano tutti gli orologi, una parte, solo i quadranti… Comunque sappiamo con buona precisione dove è stata buttata: al largo di La Spezia, vicino all’Isola del Tino.»
Il radio veniva utilizzato non solamente nei quadranti degli orologi.
«No. Veniva utilizzato nelle bussole, nei profondimetri, nei traguardi di mira, per i crocicchi di mira. Il radio era sempre “carico”, non aveva bisogno di luce per caricarsi.»
All’epoca della sua prima produzione fu una scelta quasi obbligata?
«Sì, Panerai si trovo a rispondere nel 1935 ad una richiesta della Marina Militare che voleva un orologio subacqueo e visibile in immersione, di notte. Fu quindi scelta la migliore delle casse impermeabili dell’epoca, l’Oyster di Rolex, con le guarnizioni di piombo, perché all’epoca non esistevano gli O-Ring in gomma, il radio per il quadrante e un movimento meccanico a carica manuale.»


Il celebre ponte proteggi-corona?
«Arrivò in un momento successivo, perché ci si accorse che l’acqua entrava dalla corona e dal fondello. Per la corona si sopperì con il ponte e la sua leva che esercitava una pressione sulla corona.»
Come avete ereditato tutte le vicissitudini legate alla prima serie dei Panerai?
«Di scritto non c’era nulla, ci è stato tutto tramandato tramite i racconti di chi ha vissuto quel periodo. Quando entrai in Panerai, nella piccola officina di Viale Volta c’erano quattro operai che erano già anziani: sapevano fare tutto, ed erano davvero un pozzo di scienza. Uno di loro, Duilio Signori, era colui il quale aveva materialmente disegnato a mano il ponte proteggi corona.»
Lo aveva anche poi realizzato materialmente?
«Sì. Il primo lo fece a mano con la lima. Con la lima, partendo dal tondello in acciaio, era capace di realizzare una cassa perfetta.»
Cosa ricorda di Giuseppe Panerai?
«Ricordo che immediatamente dopo la sua morte nel 1972, la moglie Maria Teresa Abetti, chiuse a chiave il suo laboratorio e lo lasciò così senza più toccare nulla. Nel 2005 chiamò a me e l’Ing. Dino Zei dicendoci: “Ho riaperto il laboratorio e ho trovato tante cose, progetti, disegni. A lei Mario le chiedo di fare un inventario deglioggetti, mentre all’Ing. Zei di controllare i documenti ed eventualmente distruggere quelli coperti da segreto militare, sebbene siano passati decenni da quando erano stati secretati”. Noi facemmo quest' inventario, trovando oggetti incredibili i quali dimostravano il genio assoluto di Giuseppe
Panerai (diplomato in Ragioneria!).»
Dove sono finiti tutti?
«Pensavamo all’inizio di farne un museo, poi li acquistò tutti Ferretti di Montecatini. C’erano delle cose pazzesche, specie per l’elettroluminescenza: dal Radio al Luminor, poi il Luminox e ancheil Translux. La parte documentale, quasi tutta teoricamente secretata, fu distrutta, lasciando solamente quello che poteva essere pubblico.»

Il vostro lavoro era in gran parte legato alla luminosità.
«Per l’utilizzo sulle navi avevamo inventato questi Elux, dei quadrati spessi che sostituivano le lampadine, con una particolarità: erano a luce fredda, non si scaldavano e consumavano pochissima corrente. Incassati sul ponte di volo, erano perfetti per delimitare di notte la zona di atterraggio degli elicotteri.»
Durante il primo periodo dal 1936 al 1968, quanti pezzi ha prodotto Panerai?
«Indicativamente circa 1300 Radiomir (intesi come ref. 3646) e 500 Luminor (intesi come ref.6152-1), oltre a circa 24 ref. 6152 , 38 ref. 6154 e 30 ref. 3646 transitional. Si tratta di un numero veramente esiguo, che spiega bene il loro valore odierno sul mercato collezionistico. Poi circa 60 Egiziani per la Marina Militare di quel paese.»
I tedeschi acquistarono dei Panerai durante la Seconda Guerra Mondiale?
«Sì, nei 1300 pezzi prodotti sono inclusi anche quelli per i tedeschi: non sappiamo se li acquistarono direttamente o tramite Junghans. Li diedero in dotazione ai Kampfschwimmer, gli equivalenti dei nostri Incursori della Marina.»
Se ne conosce qualcuno tra i collezionisti?
«Certo, uno è anche esposto nel museo a Neuchatel. Sono fresati all’interno del fondello e senza marca sul quadrante.»
Come furono accolti i Panerai dagli appassionati quando li riproponeste all’inizio degli anni ’90?
«All’inizio con un po’ di scetticismo, soprattutto per le dimensioni che all’epoca erano decisamente fuori dal comune. Molti mi dicevano: “Ma cosa è? Una sveglia da polso?”. Poi iniziò a piacere e fummo gli antesignani dell’orologio extra large, lanciammo una moda, da quel momento tutte la maison orologiere iniziarono a realizzare orologi di dimensioni più grandi dell’usuale.»
Cosa pensa oggi quando vede un Panerai al polso di una persona che non conosce, magari al ristorante oppure in aereo?
«Sono molto contento per il grande successo che ha avuto l’orologio Panerai nel mondo, ed ogni volta mi stupisco, ma non posso fare a meno di pensare all’Ing. Zei e al rimpianto che lo avrà accompagnato fino alla morte. Mi  piacerebbe però che la gente che compra un Panerai conoscesse la storia e l’indiscutibile tecnologia che c’è dietro il marchio.»

 

Foto di Luca Garbati

Si ringraziano  Corrado Mattarelli e Roberto Randazzo

 

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